Carolina Bertolaso Psicologa

Tagliare i ponti con la propria famiglia: comprendere davvero l'estrangement familiare

Negli ultimi giorni, mentre le città si riempivano di luci e le vetrine esponevano scenari familiari di calore e appartenenza, ho avuto una seduta che ha lasciato in me una traccia profonda e che mi ha spinta a scrivere questo articolo.

Valentina

Valentina, una mia giovane paziente, è arrivata con uno sguardo che tradiva una fragilità diversa da quella che aveva mostrato in altri momenti dell’anno.

La storia di Valentina è difficile perfino da raccontare. È cresciuta in un contesto gravemente disfunzionale, segnata sin da bambina dall’assenza emotiva e fisica di una madre che non solo non era in grado di occuparsi di lei, ma che la esponeva regolarmente a violenze psicologiche, fisiche e sessuali. È stata seguita dai servizi sociali e inserita in percorsi che avrebbero dovuto proteggerla, eppure nulla è stato sufficiente a offrirle quella sicurezza primaria che ogni bambino dovrebbe poter dare per scontata.


Intorno a lei c’era una rete familiare permeabile, incapace o non disposta a vedere quello che stava succedendo e pronta a minimizzare, a negare, e a deviare la responsabilità.

Nonostante questo passato, Valentina si è laureata, lavora, vive da sola, combatte ogni giorno per creare la vita che sognava di avere. 

Valentina mi ha detto” Gli altri sembrano avere tutti un posto dove tornare. Io non l’ho mai avuto, e questo a dicembre pesa più che in qualsiasi altro mese.”

Ogni cosa, in questi giorni le fa sentire un peso che non riesce a scrollarsi di dosso: le lucine, gli alberi di Natale, le persone che comprano i regali. Quello che sente non è nostalgia della sua famiglia, perché quella famiglia è un luogo da cui ha dovuto allontanarsi per salvarsi; è nostalgia di ciò che non ha mai avuto, e che nessuna vita adulta potrà restituirle.

 

Una storia che riguarda tantissime persone

Nella frase di Valentina c’è tutta la verità dell’estrangement familiare: non il taglio netto che molti immaginano, non la ribellione impulsiva che tanti giudicano superficialmente, ma un dolore antico, stratificato, che si riaffaccia ogni volta che la società ricorda ossessivamente che “la famiglia è tutto”. E guardarla, forte e fragile allo stesso tempo, così profondamente sola pur avendo fatto tutto ciò che poteva per ricostruire se stessa, mi ha ricordato ancora una volta quanto questo fenomeno sia mal compreso e quanto sia importante parlarne con rigore, con compassione e con onestà.

È da questa seduta, da questo incontro così intenso e così toccante con lei, che è nata in me l’urgenza di raccontare cosa sia davvero l’estrangement, perché così tante persone lo vivono in silenzio, e perché nessuno dovrebbe giudicarle per aver preso una decisione così radicale e dolorosa.

 

Cos’è veramente l’estrangement familiare

Quando parlo di estrangement intendo la decisione sofferta, maturata spesso in decenni, di prendere distanza dalla propria famiglia d’origine dopo aver tentato con ogni mezzo di costruire un dialogo, una relazione affettivamente sicura, un contatto che potesse avere almeno una parvenza di reciprocità. È una decisione che arriva solo quando ogni tentativo è fallito, quando la realtà familiare si rivela talmente disfunzionale, oppure apertamente violenta, da non permettere più alcuna forma di frequentazione senza subirne conseguenze emotive o fisiche insostenibili.

Le persone che incontro in terapia non arrivano a questa scelta perché non hanno provato abbastanza: ci arrivano dopo aver provato tutto. Ci arrivano dopo anni di conversazioni tentate e mai accolte, di spiegazioni ignorate, di confini che non vengono rispettati, di speranze che si riaccendono solo per spegnersi di nuovo. Ci arrivano dopo aver provato ad adattarsi, a perdonare, a giustificare, a ricominciare. E quando, finalmente, comprendono che non c’è più nulla da fare, la scelta di allontanarsi non appare come un atto liberatorio, ma come una strategia di sopravvivenza.
Questa scelta non sempre porta immediatamente sollievo: porta, piuttosto, un dolore acuto, un senso di sospensione, una solitudine che diventa particolarmente visibile proprio in questi giorni di dicembre, quando tutto intorno sembra ricordare ciò che non si è mai avuto.

È proprio nel contrasto tra la narrazione collettiva della famiglia ideale e la realtà intima di queste persone che l’estrangement mostra tutta la sua durezza. Chi sceglie di prendere distanza soffre non perché ha perso la sua famiglia, ma perché non l’ha mai avuta nella forma di cui avrebbe avuto bisogno. Soffre perché ogni luce, ogni rituale, ogni conversazione incentrata sulla “famiglia che si riunisce” mette a nudo un’assenza radicale: quella di un luogo emotivo a cui davvero tornare. 

l’estrangement non è il frutto di una decisione netta: è un processo psicologico complesso, che si snoda attraverso un percorso tortuoso, costellato di emozioni potenti e spesso davvero molto conflittuali.


Il primo sentimento che si manifesta è quasi sempre il senso di colpa. Un senso di colpa irrazionale, radicato negli anni in cui il figlio si è sentito responsabile del benessere emotivo dei genitori, o in cui è stato convinto — direttamente o indirettamente — che il proprio dolore non fosse importante. Anche chi ha subito violenze evidenti, anche chi ha affrontato abusi, ricatti emotivi, umiliazioni, continua a interrogarsi: «E se fossi io quello sbagliato? E se stessi esagerando?»

Accanto alla colpa arriva l’angoscia, una forma di inquietudine profonda che emerge quando ci si accorge che prendere distanza significa, in un certo senso, perdere una parte della propria identità. La famiglia, anche quando è un luogo traumatico, rappresenta un punto di riferimento: allontanarsene significa confrontarsi con un vuoto, con un’assenza strutturale, con la paura di non sapere più dove collocarsi nel mondo.

Poi arriva la paura. La paura di non farcela. La paura di essere giudicati. La paura di rimanere soli. La paura di incontrare per caso i genitori e perdere la propria stabilità.
La paura, soprattutto, di pentirsi. Ma quella paura non è un segnale che la decisione è sbagliata: è un segnale che la decisione è reale, che tocca qualcosa di profondo.

Seguono il terrore — il terrore delle telefonate impreviste, delle ricorrenze, delle festività che ricordano tutto ciò che non c’è stato — e, paradossalmente, anche la speranza. Una speranza ostinata, che resiste perfino quando la persona sa che quella madre o quel padre non cambieranno mai e poi mai.
È la speranza del bambino interno che continua a chiedersi: «E se un giorno succedesse qualcosa di diverso? E se arrivasse finalmente una parola, un gesto, un segno?»
Questa speranza è una traccia del bisogno, del tutto umano, di essere amati.

Ma l’emozione più profonda, quella che avvolge tutte le altre, è il lutto.
Un lutto immenso, che non riguarda la famiglia che si è lasciata, ma quella che non si è mai avuta.
È il lutto per l’amore che non è arrivato, per la protezione mai ricevuta, per i momenti che non sono esistiti e che non esisteranno mai.
È un lutto che riguarda ogni compleanno passato in silenzio, ogni Natale segnato dall’ansia o dalla paura, ogni promessa infranta, ogni volta in cui la persona ha sperato che le cose potessero essere diverse.
Ed è un lutto senza riconoscimento sociale, senza rituali, senza consolazione: un lutto che si vive in solitudine, perché la cultura non riconosce il dolore di perdere qualcosa che non è mai esistito.

In questo periodo dell’anno assisto a tutto questo con un senso profondo di rispetto, e spesso anche con un dolore che mi abita mentre ascolto i racconti dei miei pazienti. Vedo la fatica con cui cercano di tenersi insieme, la dignità con cui attraversano emozioni che avrebbero spezzato chiunque, la determinazione con cui provano a costruire un’identità libera dal trauma.

Per questo considero fondamentale che queste persone vengano capite,  supportate, ascoltate, accolte, non giudicate. L’ultima cosa di cui hanno bisogno è qualcuno che dica loro che “dovrebbero provare ancora”, o che “la famiglia è importante, non importa cosa è successo”. Hanno già provato oltre ogni limite umano. Hanno già sopportato ciò che nessun bambino  dovrebbe sopportare. Hanno già portato sulle spalle il peso di generazioni intere di dolore.

Ciò di cui hanno bisogno ora è qualcuno che dica loro:
“Hai fatto qualcosa di difficilissimo. Hai fatto ciò che era necessario. E non sei tu quello sbagliato.”

 

Una parola per te che stai attraversando tutto questo

Se ti ritrovi in queste parole, se il periodo delle feste porta con sé un peso che non sai spiegare a voce, voglio che tu sappia che ciò che provi non è segno di fragilità, né di mancanza di coraggio. È il risultato di una storia complessa, fatta di tentativi, di cadute, di ripartenze; è l’esito di un cammino che hai percorso spesso da solo e che ti ha chiesto più di quanto chiunque avrebbe potuto sopportare.

L’estrangement familiare non è un gesto impulsivo né una ribellione per capriccio: è una traiettoria psicologica che prende forma lentamente, quando la realtà diventa troppo dolorosa per poter restare. È una decisione che spezza, perché va contro tutto ciò che culturalmente associamo all’idea di famiglia, e proprio per questo richiede una quantità di coraggio che raramente viene riconosciuta.

Riconoscere questa complessità significa restituire dignità a chi ha dovuto prendere una strada così impegnativa. Significa comprendere che la forza non sta nel riuscire a mantenere un legame a ogni costo, ma nel trovare il coraggio di interromperlo quando quel legame è distruttivo.

In un mondo che continua a raccontare che la famiglia è sempre un luogo sicuro, è importante ricordare che non per tutti è così, e che esistono storie in cui la sopravvivenza emotiva passa attraverso scelte che dall’esterno possono sembrare incomprensibili. Il rispetto, l’ascolto e l’assenza di giudizio non dovrebbero mai mancare a chi ha vissuto un percorso simile.

E forse, se c’è un senso in cui possiamo parlare di “rinascita”, è questo: la possibilità di riconoscere che ciò che è accaduto non definisce ciò che si può diventare.
Esiste un modo diverso di appartenere.
Esistono legami nuovi, scelti, maturi, che possono nascere nel tempo.
E, soprattutto, esiste la possibilità di costruire una vita che non sia più la conseguenza diretta del dolore ricevuto, ma l’espressione della persona che, nonostante tutto, sei riuscito a diventare.