Carolina Bertolaso Psicologa

Sul figlicidio di Giovanni a Muggia: il pericolo di non riconoscere il pericolo

Il fatto di cronaca di cui si parla in questi giorni è uno di quelli che travolgono: un bambino ucciso dalla propria madre, un padre distrutto, una comunità intera che si stringe attorno a un dolore impossibile da contenere. 

 Tutti abbiamo visto il video di quel bimbo dire chiaramente “non voglio andare con mamma, non voglio” e nel constatare a posteriori come sono andate le cose, siamo stati colti da uno sgomento senza fine. Di fronte a una tragedia di tale portata, è davvero inevitabile porsi la domanda: com’è possibile che nessuno abbia ascoltato? Perché la voce di quel bambino, le denunce e le richieste di aiuto del genitore che lo stava proteggendo, non sono state prese sul serio, o non in tempo?

A prescindere da chi dovrà rispondere concretamente di ciò che è accaduto, vorrei che il clamore che si è giustamente creato attorno a questa tragedia servisse almeno ad aprire un altro dibattito, strettamente collegato ma quasi sempre ignorato: quello sul totale mancato riconoscimento della violenza psicologica da parte di genitori disturbati nei casi di affidamento dei minori. 

Voglio chiarire subito un punto: l’obiettivo di questo articolo non è formulare alcun tipo di ipotesi sullo stato mentale della madre del piccolo Giovanni. Ciò di cui voglio parlare è del fatto che, in questa storia come in moltissime altre, il pericolo c’era, era stato segnalato più volte, ed è stato comunque ignorato. 

Questo è un tema che mi tocca da vicino, perché nel mio lavoro di ogni giorno come psicologa specializzata in relazioni patologiche ho a che fare con la disperazione di madri e padri vittime di questa negligenza.

Penso, per esempio, a una mia paziente: una madre giovane che sta crescendo suo figlio da sola perché l’ex compagno non ha mai voluto riconoscerlo. Per anni non ha mostrato alcun interesse.

Fino a quando lei ha provato a liberarsi da quella relazione, cercando di salvaguardare se stessa e suo figlio. Allora,  all’improvviso, lui ha “scoperto” di essere un padre, e di volere ottenere il riconoscimento legale del figlio. L’ha ottenuto, e poi ha iniziato a chiederle di vedere il bambino con una frequenza che non ha alcun legame con l’interesse per la vita del minore, ma ha tutto a che fare con il suo bisogno di tenere lei legata a sé. Ha iniziato ad accusarla di egoismo, a insinuare che voglia “privarlo del padre”, a creare caos: appuntamenti fissati e poi disdetti all’ultimo, minacce velate, pressioni per ottenere sempre più tempo, tentativi di rovesciare la narrazione su di lei.

La situazione è chiara a chiunque conosca queste dinamiche: non è interesse paterno, ma controllo.

E come accade quasi sempre, nessuno se ne accorge. Lei ha ottenuto l’affidamento esclusivo – ed è stato un traguardo importante – ma si ritrova comunque obbligata, per legge, a consegnare il figlio a quest’uomo nei giorni in cui lui ha il diritto di vederlo. E ogni volta che lo fa sente di tradire se stessa. Sa che accanto a lui quel bambino seppure non fisicamente in pericolo, è in pericolo psicologicamente: per la confusione, l’imprevedibilità, la manipolazione sottile che inevitabilmente farà parte del suo modo di stare al mondo. 

La mia paziente è una donna intelligente, consapevole, impegnata da tempo in terapia. Nei momenti di lucidità, si rende conto della situazione. Eppure, a volte, dimentica del tutto quanto lui sia pericoloso. Lo giustifica. Minimizza. Si sorprende di sé stessa quando, per qualche giorno, la sua mente le suggerisce che “forse, alla fine, non è poi così male”.

Il suo non è un errore, né un segno di debolezza o ingenuità. È un meccanismo di protezione. Quando non possiamo cambiare una situazione – e lei non può rifiutarsi di fargli vedere il figlio – la mente fa quello che può per sopravvivere: addolcisce il pericolo, attenua l’allarme, costruisce una narrazione più tollerabile. È il modo in cui il suo cervello la protegge dal dolore che deriva dal sentirsi costretta a consegnare suo figlio a una persona che la sua parte più profonda considera una minaccia.

Questo è quello che accade ogni giorno a madri e padri che lottano per proteggere i loro figli dal un sistema non sa distinguere un normale conflitto da una dinamica violenta. 

Uno dei problemi più gravi e più sottovalutati è la difficoltà nel riconoscere il funzionamento delle personalità narcisistiche e psicopatiche all’interno dei contesti valutativi. Per la loro stessa natura, spesso queste personalità non appaiono affatto disturbate quando vengono osservate dai servizi o dai tribunali. Al contrario, si mostrano impeccabili: ordinate, lucide, controllate, collaborative, educate, razionali. Capaci di un fascino incisivo, calibrato, strategico.

Sanno esattamente come modulare il proprio comportamento per apparire credibili, affidabili, “genitori modello”. Leggono l’interlocutore con abilità sorprendente e modellano la loro immagine come fosse una performance studiata. Non è un caso che molti professionisti – privi della formazione clinica specifica necessaria – finiscano per credergli, legittimarli o addirittura allearsi implicitamente con la loro narrazione.

Dall’altra parte c’è il genitore non patologico. Quello che ha subito per anni violenza psicologica, e che arriva davanti ai servizi o ai tribunali già in condizioni emotive compromesse: stremato, ipervigilante, spaventato, spesso con un PTSD pieno. È un genitore che può apparire agitato, disorganizzato, ansioso, disperato. Non perché sia instabile, ma perché è traumatizzato.

Eppure il sistema interpreta il trauma come una mancanza, non come una conseguenza. Chi ha subito abusi psicologici viene giudicato per le sue reazioni, non compreso per la sua storia. Diventa “troppo emotivo”, “troppo fragile”, “troppo reattivo”. Esattamente l’opposto di ciò che è: l’unico genitore che sta dicendo la verità.

A tutto questo si aggiunge l’errore sistemico più frequente: la richiesta di collaborazione. Ai genitori viene detto di “cooperare”, “mantenere un clima sereno”, “evitare conflitti”. Ma questa richiesta ignora completamente la natura della relazione. Chiedere collaborazione in una relazione patologica significa ignorare l’esistenza stessa della violenza.

Una personalità disturbata non vuole la collaborazione: vuole dominio. E lo ottiene, spesso, proprio attraverso l’uso dei propri figli.

Per un soggetto gravemente narcisista o psicopatico, un figlio diventa lo strumento ideale per punire l’altro genitore, per mantenere controllo, per ottenere gratificazione narcisistica. In questo contesto, ogni richiesta di collaborazione diventa una nuova occasione per manipolare, intimorire, destabilizzare.

Esiste poi un secondo problema, che osservo ogni giorno attraverso le storie dei miei pazienti è che uno degli aspetti più gravemente fraintesi: il comportamento dei bambini. I minori che si trovano nel mezzo di separazioni conflittuali, spesso infatti appaiono molto legati al genitore disturbato. Mostrano affetto, manifestano il desiderio di frequentarlo e di comunicare con lui. 

A uno sguardo inesperto, questo può sembrare la conferma che esista una relazione positiva e sicura. Ma clinicamente è tutt’altro: è spesso la manifestazione di un legame traumatico.

Il bambino si interessa alla figura più pericolosa perché è l’unica strategia che il suo sistema nervoso conosce per ridurre il rischio. Rimane vicino per monitorare, anticipare, placare. Cerca approvazione compulsivamente. Confonde paura e affetto. Assume su di sé la responsabilità emotiva del genitore abusante. Si adatta in modo estremo per sopravvivere alla relazione.

A peggiorare la situazione è il fatto che spesso, il genitore non disturbato è spesso quello che appare meno “scelto” dal bambino. Non perché il bambino non lo ami, ma perché quel genitore non entra nella dinamica della seduzione manipolativa. È l’unico che dice dei no, che contiene, che regola, che difende. È l’unico che pensa al futuro del bambino, non al proprio tornaconto o alla propria gratificazione narcisistica. Per questo appare meno “accattivante”, meno “divertente”, meno “complice”.

Il sistema confonde stabilità e rigidità, e confonde seduzione e capacità genitoriale. Il risultato è che chi protegge viene penalizzato, e chi manipola viene premiato. 

Un altro grande problema è che nelle separazioni conflittuali, il sistema delle valutazioni si basa troppo spesso su osservazioni rapide, frammentarie, incapaci di cogliere il funzionamento profondo delle persone. Si producono relazioni descrittive, che parlano di ciò che “si è visto” in poche ore, senza alcuna reale comprensione della struttura di personalità, delle strategie manipolative, dei pattern coercitivi o delle conseguenze della violenza psicologica sul minore. Ci si limita spesso a raccogliere dichiarazioni e osservazioni e a riportarle in forma simmetrica – “lui dice, lei dice”; “lei fa, lui fa” – come se le parole ed i gesti di entrambi i genitori avessero lo stesso peso e la stessa credibilità. Soprattutto, come se avessero la stessa radice emotiva e come se questa fosse, sempre ed invariabilmente, il desiderio di fare il meglio per i propri figli. 

Il sistema difficilmente vede la realtà per quello che è: un genitore disturbato non ha alcun interesse nel tutelare i propri figli, e Il fatto che appaia interessato ai figli o capace di prendersene cura non significa in alcun modo che lo sia. 

Così ci troviamo davanti a perizie che non sanno distinguere tra tra cooperazione manipolativa e cooperazione reale. Relazioni che narrano senza interpretare, descrivono senza comprendere, e finiscono per fallire proprio nel loro compito centrale: proteggere.

La conseguenza di questo è che si crea una falsa simmetria: due versioni, due punti di vista, due genitori che – secondo la logica del sistema – devono essere messi sullo stesso piano, ascoltati nello stesso modo, trattati come se vivessero la stessa realtà. Tutto, ovviamente, in nome della collaborazione. Una collaborazione presentata come se fosse una specie di medicina miracolosa: la panacea di ogni male, il mantra che risolve ogni conflitto, il gesto salvifico che – nella fantasia di chi osserva da fuori – dovrebbe sistemare tutto.

Peccato che nessuno si prenda mai la briga di chiedersi con chi si stia chiedendo di collaborare. Perché c’è una certa ironia, amara, nel vedere servizi e tribunali insistere su questo punto come se fosse un atto dovuto, ignorando o fingendo di ignorare il fatto che nelle relazioni patologiche non c’è alcuna possibilità di collaborazione. C’è solo opposizione, strumentalizzazione, sabotaggio, e una sistematica tendenza a voler rovinare la vita all’altro, senza alcuna considerazione per le conseguenze che tutto ciò ha sui figli. E il paradosso è che in questa dinamica in cui si richiede collaborazione in nome della tutela dei minori,  sono proprio questi che diventano le vittime principali di un sistema che è fondamentalmente incapace di proteggerli davvero. 

Ci troviamo davanti ad una malattia fatta di superficialità valutativa, di ignoranza clinica, di resistenze culturali e di un analfabetismo diffuso rispetto alla violenza. Una malattia che trasforma i tribunali in luoghi dove il potere manipolativo trova terreno fertile, mentre la vulnerabilità viene trattata come debolezza o peggio ancora, inadeguatezza.

Se non si conosce la differenza tra un conflitto e una violenza, tra un attaccamento sano e uno traumatico, tra una cooperazione autentica e una cooperazione di facciata, allora non si può proteggere nessuno. Men che meno un minore. E così bambini e genitori vengono risucchiati in procedimenti giudiziari dove la verità non trova spazio.

La verità scomoda è che un sistema che non sa riconoscere la violenza psicologica non è un sistema neutro: è un sistema complice. Complice della manipolazione. Complice del ribaltamento delle responsabilità. Complice di una narrazione che premia chi sa mentire e punisce chi sta chiedendo aiuto. Complice, inevitabilmente, della sofferenza dei minori.

Il caso del piccolo Giovanni non può rimanere un altro episodio da archiviare con un’ondata di indignazione temporanea. Dovrebbe essere l’occasione per riflettere su queste tematiche e riuscire ammettere, finalmente, che forse bisognerebbe prendersi la responsabilità di rivedere i propri protocolli, e di aggiornare le proprie competenze. 

Non possiamo cambiare da un giorno all’altro il modo in cui le cose funzionano. Ma possiamo – e dobbiamo – cominciare a parlarne. Perché un sistema che non sa vedere è un sistema che non sa proteggere. E fino a quando non riconosceremo la violenza psicologica come una forma reale, potente e devastante di danno, continueremo a lasciare soli bambini e genitori che ogni giorno implorano di essere creduti e vivono sulla propria pelle le conseguenze di una negligenza che non può più, e non deve più, rimanere normalizzata.